Di lui, purtroppo, ho pochi ricordi. Ero troppo giovane, avevo solo sette anni, quando morì sulle Ande Peruviane.
Ricordo la sua barba ispida che pizzicava la mia faccia quando nel piazzale del parcheggio gestito dal nonno, dove spesso ci si ritrovava con i cugini e gli zii, mi salutava e mi prendeva in braccio.
Ricordo il suo abbraccio forte e il suo sorriso sereno.
Ricordo gli occhi di mio padre illuminarsi quando parlava di lui e delle sue salite.
Ho imparato a conoscerlo come alpinista molti anni dopo quando anch’io, seguendo le orme di famiglia, ho cominciato ad arrampicare e sono riuscito a ripetere alcuni dei suoi itinerari più celebri.
Ho imparato a conoscerlo attraverso gli scritti di altri.
Ho imparato a conoscerlo soprattutto attraverso le parole di papà Vincenzo, suo fratello maggiore, che nutriva per lui una vera e propria venerazione.
Classe 1936. Il più giovane di sette fratelli.
Nato a Trento in uno dei quartieri, il Suffragio, poveri della città. Inizia presto a lavorare presso le Ferrovie dello Stato come operario riparando e conducendo locomotive a vapore. Uomo testardo e senza compromessi, dal carattere duro, ma capace di un’amicizia sempre sincera e vera.
Esponente di punta dell'alpinismo trentino della generazione immediatamente successiva a quella di Cesare Maestri. Membro del Club Alpino Accademico Italiano, Istruttore Nazionale di Alpinismo e componente l’organico della Scuola Graffer ebbe come compagni i migliori alpinisti del suo tempo e in quindici anni (1955-1971) di attività portò a termine una serie di ripetizioni e di prime di assoluto rilievo.
Fisico atletico che curava con una preparazione atletica e fisica costante e quasi maniacale. Geniale e innovativo sia nell’arrampicata sia per il fatto che spesso creava e modificava ad arte strumenti e protezioni che potevano servire al suo scopo (celebri i grossi conei di legno che si fabbricò per risolvere e proteggere la larga fessura incontrata sulla sud della Paganella durante l’apertura della Superdirettissima).
Conscio dei rischi dell’attività su roccia, la sicurezza della cordata rimaneva sempre tra i suoi obiettivi principali non lesinando mia sull’utilizzo dei chiodi (papà spesso mi ripeteva una sua frase a questo proposito: “meglio un chiodo di più che un Bepi di meno”) ma cercando al contempo il giusto equilibrio con l’estetica, la logicità e l’integrità della salita.