Arrampicava dall'età di 15.
E' caduto dal Campanile Pradidali nel Luglio 76
Un ricordo di Marcello Rossi
Campanile Pradidali: un pilastro di roccia grigia che si perde nella nebbia. Acqua che cola da una parete. Ghiaia che rotola sotto ì piedi. E l'angoscia di due genitori saliti fin quassù alla ricerca disperata di un perché. Un vento gelido e impietoso scava incessantemente nei meandri della montagna, incurante dei sentimenti umani. Un canale, un grande buco gocciolante: troviamo un telo impermeabile, un fazzoletto fradicio Qualche metro sopra, un chiodo, listato di giallo. Con le mani intirizzite raggiungiamo un terrazzino, venti metri sopra il buco. Cerchiamo con lo sguardo tra i sassi e troviamo un orologio. Il quadrante è verde e un po' schiacciato. Il meccanismo immobile. Leggiamo le quattro meno dieci. La data è ferma sul giorno 20.
Franco teneva caro il suo orologio, sempre preciso. Anche se il tempo non ha molla importanza in montagna. Il tempo si misura solo in pianura a ritmare una vita talvolta grigia, spesso inutile. La montagna al contrario offre un'altra dimensione al tempo.
Una vita senza ideali può essere peggio della morte. Per questo Franco se ne va in montagna. La scopre, la analizza, ne percorre i sentieri, ne saggia le difficoltà, lotta per dominarla, gusta il sapore della conquista.
E nella lotta affina la sua sensibilità, riscopre la vita.
L'alpinista. Questo strano essere che lotta per qualcosa che l'umanità ritiene per lo più inutile. Forse si nasce alpinisti. Forse sono le prime passeggiate nell'infanzia a far nascere questo ìncontenibile bisogno di un contatto forte con la natura.
Franco scopre la passione per le arrampicate. Ha 15 anni. Se ne va in Paganella, primo amore per ogni trentino. Sono le prime incerte carezze sull'appiglio ancora sconosciuto, su una parete di calcare chiaro dal volto ancora inquietante. Crolla la barriera dell'ignoto. E si apre la porta verso un nuovo universo fino ad ora proibito, tutto da esplorare, tutto da vivere.
Torre di Brenta, Torri del Vaiolet: prime fughe nel pallido mondo delle Dolomiti. Scopre il Campanil Basso, ripete il capolavoro di Preuss e sullo stesso slancio si attacca alla grande parete del Crozzon, guadagnandone la cima. Lassù, nell'aria ormai satura di elettricità per un temporale imminente, agguanta il compagno che se ne parte tranquillo verso la Tosa, i capelli irti in testa come un istrice: "Dov'è che vai pellegrino! " e lo convince a passare la notte nel bivacco Castiglioni.
A 16 anni se ne torna in Paganella, riesce a scovare un angolo di parete ancora libero da itinerari e lì apre la sua prima via nuova. Non è tanto la tecnica acquisita con l'esperienza, quanto uno stile istintivo che lo porta a percorrere la parete con movimenti leggeri e sicuri. Uno stile che lo porta ben presto ai suoi primi incontri con le grandi difficoltà. Dalle prime vie dure sul Piz Ciavazes al ritorno al Crozzon lungo la via delle Guide e il gran diedro Aste. Dalle grandi placche del Pizzo Badile ai rossi pilastri del Mont Blanc du Tacul. Stringe amicizia con Mario Zandonella. Mario il " mite ", il silenzioso, il solitario vincitore di tante terribili pareti. E con lui vive la sua prima stagione " di fuoco ", strappando una serie di salite dure e meravigliose dal mondo dei desideri per riportarle nel mondo della realtà vissuta. Poi la sua prima esperienza con l'arrampicata solitaria, fino ad ora ignorata e addirittura condannata.
" Il solitario è tranquillo con se stesso, dorme la notte precedente la salita, è sicuro di arrivare in cima e la sua arrampicata, mancando dei passaggi azzardati e goffi che talvolta si fanno in cordata, risulta elegante e oltremodo gratificante e sicura. Il solitario ama la vita più degli altri, Proprio perché essa gli serba esperienze più belle, più profonde, più complete".
Sono considerazioni messe a fuoco dopo un nuovo tipo di esperienza alpinistica che ha voluto inaugurare sul più bel monumento all'alpinista solitario: la parete Preuss al Campanil Basso, Presanella, parete est. E' l'inverno 1974-75. Un tentativo disperato, come disperata è la levigatezza dei lastroni di granito e la neve che blocca le fessure e il freddo che indurisce i movimenti. Un bivacco penoso, chiodi impossibili, slavine. Il ritorno si rende necessario. Andrà meglio al secondo colpo e il tramonto sulla vetta, dopo tre giorni di lotta, sarà indimenticabile. I suoi amici, la sua ragazza vicino, e l'Adamello, nero in un cielo infuocato; i segni della gioia in un viso tirato dalla fatica dopo la sua prima grande invernale. Il "mite", che fa parte della cordata, è commosso: "è la prima invernale che faccio, ma non ne farò più di così belle!".
La sua caparbietà nel conseguire affermazioni alpinistiche è la stessa che lo porta a ottenere solidi risultati nel campo dello studio. Terminato il liceo scientifico si iscrive alla facoltà di medicina. Tanto deve alla montagna, tanto deve allo studio. E non ci sono domeniche che tengano. Bloccandosi in casa anche col tempo più splendido, porta avanti la sua battaglia per lo studio con la stessa grinta e gli stessi risultati che consegue sulle pareti. C'è una cosa che lo preoccupa ed è la sua futura professione. Ciò che più teme è il pericolo di diventare un tecnocrate arido e cinico in un mondo che ha sempre più bisogno di altruismo e di umanità.
A periodi di studio instancabile alterna periodi di attività alpinistica sempre più intensa, talvolta accanita, come se la montagna dovesse sfuggirgli di mano. A un anno di distanza dalla Presanella programma la sua seconda invernale. A il dicembre 1975. L'avventura dura quattro giorni, lungo la via Gilberti alla Busazza. Ma non è soddisfatto, sente dì non aver " dominato " la sua parete, si è sentito un po' trascinato. Prima che sopraggiunga la primavera se ne va perciò al Croz dell'Altissimo, stavolta ben allenato, e porta a termine una salita forse minore in quanto a prestigio, ma più autentica e più corrispondente alla propria etica alpinistica.
" L'impossibile esiste ancora. Basta avere l'intelligenza di riscoprirlo e la modestia di ammetterlo. Occorre soprattutto accettare quei principi etici che, senza troppo comprimere la libertà, appaiono necessari ai fini dell'evoluzione dell'alpinismo e della sua stessa sopravvivenza ". Sente la necessità di una assoluta onestà di mezzi perché la grande prestazione alpinistica possa essere considerata tale. E il suo modo di andare in montagna si è sempre uniformato a questi principi.
L'inizio di stagione 1976, caratterizzato dal bel tempo, lo vede lanciato in una attività frenetica dal Brenta, alla Scotoni, al Civetta. Poi si regala una pausa. Va al mare, gira in canotto, si distrae con altri panorami.
Al ritorno dal mare si porta con la sua ragazza al rifugio Rosetta, sulle Pale di S. Martino. Un gruppo di montagne un po' dimenticato. Un gruppo dalle pareti tranquille. Sale il Dente del Cimone e l'indomani il Campanile Pradidali, lungo la normale.
È il 20 dì luglio. Portata a termine la discesa, traversa la base dei campanile fin sotto lo spigolo Del Vecchio. Sono le tre mezza del pomeriggio. La roccia, grigia compatta, invita. E a 21 anni non si rifiuta mai un invito come questo. Franco si alza leggero, lo stile è sciolto. La linea dello spigolo è elegante, l'appiglio sano. Un paio d'ore, forse meno. La discesa è ormai nota. I torrioni della Cima Val di Roda guardano immobili.
Non chiedere perché un fiore sboccia o un frutto si stacca dalla pianta. La vita è come una montagna. Un castello di pietre impenetrabili alle quali solo la nostra lotta da una ragione di essere. E più dura è la lotta e più grande è la montagna. Più lungo è il bivacco e più bella è la cima.